Vitamina D e COVID-19

Dr. Roberto Capelli dell’ASST Fatebenefratelli – Sacco di Milano

I coronavirus sono un’ampia famiglia di virus respiratori che possono causare malattie da lievi come il comune raffreddore a gravi come la MERS (sindrome respiratoria acuta mediorientale) e la SARS (sindrome respiratoria acuta grave).
La malattia causata dal nuovo coronavirus SARS-CoV2 ha determinato, nella maggior parte dei casi, l’insorgenza di una cascata infiammatoria caratterizzata da una moderata liberazione di citochine infiammatorie, sufficiente ad attivare il sistema immunitario contro il virus, andando incontro a remissione dalla malattia. In altri pazienti si è registrata una “tempesta” di citochine, espressione di un sistema immunitario iperattivato, che sua volta produce altre citochine con amplificazione della risposta.
In questo periodo l’interesse principale di tutta la classe medica è stato incentrato sulle terapie in grado di trattare la polmonite da Coronavirus e le sue complicanze, con farmaci in grado di bloccare il processo infiammatorio e la frequente vasculite con antivirali, immunomodulatori, antinfiammatori, anticoagulanti, mentre minimo spazio è stato lasciato a terapie di supporto come l’integrazione con vitamina D.
La vitamina D negli ultimi anni è stata al centro di un vivace dibattito scientifico con crescita esponenziale delle pubblicazioni che la riguardano, ma anche di una tendenza alla sovraprescrizione, motivo che ha indotto l’AIFA a regolarne l’utilizzo mediante la redazione della nota CUF 96.
In PubMed, utilizzando la parola chiave di ricerca “vitamin D”, si è osservata una forte crescita dei risultati prodotti passando dai circa 300 articoli nei primi anni 2000 a circa 85.000 nel 2020; ridotta invece è la letteratura inserendo come parole chiave “vitamin D” e “immune system” con soli 86 articoli e con chiavi di ricerca “Vitamin D” e “Covid 19”, in cui gli articoli sono 92, peraltro tutti pubblicati nel 2020.
I lavori scientifici hanno evidenziato la capacità della vitamina D di ridurre le infezioni virali e batteriche, modulando l’immunità cellulare innata e adattativa nonché una correlazione inversa tra incidenza delle infezioni delle vie aeree e livelli sierici di vitamina D.
Sono ormai disponibili numerose evidenze, ancorché in gran parte di tipo osservazionale, relative a potenziali effetti clinici extrascheletrici della vitamina D, con utilizzo nel diabete, nelle patologie cardiovascolari e nei tumori, malgrado non ci siano, appunto, ancora le stesse consolidate evidenze scientifiche di efficacia del sistema muscolo-scheletrico.
Aspetti di riflessione, in relazione agli effetti extrascletrici, sono la presenza di recettori nucleari della vitamina D in numerosi tessuti, l’attività di controllo della trascrizione di geni correlati a malattie autoimmuni e gli effetti endocrini, non solo calciotropici.
La supplementazione di vitamina D migliora anche l’espressione di geni con funzione antiossidante che determinano l’aumento della produzione di glutatione, risparmiatore di acido ascorbico (vitamina C), che ha un’attività antimicrobica, per cui è stato a sua volta proposto per prevenire e curare l’infezione COVID-19.
Durante l’epidemia di COVID-19 ci siamo trovati di fronte a un contesto in cui non solo gli anziani, ma anche le persone affette da frattura da fragilità, spesso con comorbidità osteopenizzanti, erano relegati in casa, con assente attività fisica e minima esposizione solare.
L’anziano inoltre ha una fisiologica riduzione della produzione di vitamina D, a causa di livelli più bassi di 7-deidrocolesterolo nella pelle, alla frequente assunzione cronica di steroidi, con importante azione osteopenizzante, e di farmaci che riducono le concentrazioni di vitamina D attivando il recettore pregnane-X, quali: antiepilettici, antineoplastici, antibiotici, agenti antinfiammatori, antiipertensivi, antiretrovirali, farmaci endocrini e alcuni medicinali a base di erbe.
Dalla letteratura emergono consigli per le persone a rischio di influenza e/o COVID-19 di assumere 10.000 UI/die di 25(OH)D per 1 mese, seguite da 5000 UI/die, con lo scopo di raggiungere concentrazioni di 40–60 ng/ml (100-150 nmol/l), mentre per il trattamento delle persone affette da COVID-19, potrebbero essere utili dosi più elevate di vitamina D3. In una recente revisione, si è osservata, con 200.000–300.000 UI di vitamina D, assunte in dosi frazionate di 50.000 UI, una riduzione della gravità dell’infezione COVID-19.
Riguardo a un trattamento prolungato con vitamina D, la letteratura raccomanda che le somministrazioni in tale regime non superino le 100.000 UI, perché con dosi superiori si è osservato un aumento degli indici di riassorbimento osseo ed un aumento paradosso delle fratture e delle cadute. E’ stato tuttavia dimostrato che la tossicità da somministrazione di eccessive quantità di vitamina D, assunta a dosi inappropriate, è molto rara e non pericolosa per la salute dei pazienti, in accordo con la nostra esperienza clinica, in cui osserviamo pazienti che, pur commettendo errori nell’assunzione di preparati con Vitamina D, non hanno manifestato disturbi.
Ulteriore approccio terapeutico è dato dall’associazione con magnesio che collabora all’attivazione della vitamina D e contribuisce direttamente all’omeostasi del calcio e del fosfato.
Qualsiasi indicazione terapeutica non può prescindere da una corretta alimentazione con almeno di 1000-1500 mg die di calcio, soprattutto nell’anziano, che di base ha frequenti quadri di malassorbimento e di alterazione dell’omeostasi calcica, onde evitare quadri di iperparatiroidimo secondario con effetti negativi sull’osso. Inoltre la vitamina D ha dimostrato una migliore efficacia in presenza di un adeguato intake di calcio.
Nel periodo del lockdown abbiamo potuto seguire solo in telemedicina i numerosi pazienti che affluiscono al nostro Centro di osteoporosi e delle malattie metaboliche dell’osso. Sulla base delle esperienze sovradette, a tutti abbiamo consigliato un raddoppio della dose di vitamina D, pur ovviamente non eseguendo dosaggi della 25Ohvitamina D, lasciando invariate le dosi di eventuali farmaci antiriassorbitivi.
Frutto di questa esperienza è l’idea (che si spera non più necessaria in futuro) di introdurre l’integrazione con vitamina D in coloro che lavorano in ambienti a rischio, quali gli ospedali e le RSA, per aumentarne la concentrazione plasmatica in un’ottica di prevenzione delle infezioni e della loro diffusione.
Sono, in ogni caso, auspicabili studi randomizzati su un’ampia popolazione per dare valenza assoluta a questa strategia terapeutica e di prevenzione, stante l’attuale presenza di dati scientifici non univoci, in particolare in relazione al dosaggio e alle concentrazioni